Marco Gambassi
Studio delle stelle: Astronomia e Astrologia
Una poesia di Costantino Kavafis mi ricorda la situazione di oggi, in cui 'arrivano i migranti'. Questi "extracomunitari" sono utili, perché mandano avanti le imprese e fanno i lavori duri, permettendo ad altri italiani di arricchirsi o di non far niente; perché in qualche modo stiamo diventando una società corrotta e decadente, e loro ci riportano ad una semplicità di costumi; e perché se le cose vanno male si scaricano le colpe su di loro.... Ma cosa succederebbe se i migranti non venissero più da noi?
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché tanta inerzia in Senato?
Perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta solenne in trono,
alla porta maggiore incoronato?
Oggi arrivano i barbari.
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
ha scritto loro molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari,
e questa roba a loro fa impressione.
Perché i valenti oratori non vengono
a pronunciare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? I volti come si son fatti seri!
Perché rapidamente strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa confusi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
I messaggeri sono giunti dai confini
e han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
Poesia di Kavafis dedicata a chi deve dire un sì o un no.
Si può restare puri anche dicendo un sì, se lo si dice col cuore e non per servilismo o per paura:
*******
Che fece... il gran rifiuto
Arriva per taluni un giorno, un'ora
in cui devono dire il grande Sì
o il grande No. Subito appare chi
ha pronto il Sì: lo dice e sale ancora
nella propria certezza e nella stima.
Chi negò non si pente. Ancora No,
se richiesto, direbbe. Eppure il No,
il giusto No, per sempre lo rovina.
di Costantino Kavafis
Se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
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Una poesia di Gunter Grass
L'autore prende posizione contro la decisione della Germania di vendere a Israele alcuni sottomarini, che potrebbero servire a un eventuale attacco contro l'Iran. La poesia è stata recentemente pubblicata da un giornale tedesco ed è stata seguita da numerose polemiche. La riporto perché apre un dibattito a favore della pace e della necessità di controllare (e ridurre, ed eliminare) gli arsenali militari e soprattutto quelli di armi atomiche. La situazione nel frattempo si è fatta ancora più critica con lo straripare dell'ISIS e la reazione angloamericana. Credo che più che le bombe, molto più sia necessario il dialogo tra i popoli e la ricerca di un nuovo ordine in cui ogni cultura abbia il suo spazio.
PERCHÉ taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo
quanto è palese e si è praticato
in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,
noi siamo tutt’al più le note a margine.
E’ l’affermato diritto al decisivo attacco preventivo
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo
organizzato,
perché nella sfera di sua competenza si presume
la costruzione di un’atomica.
E allora perché mi proibisco
di chiamare per nome l’altro paese,
in cui da anni — anche se coperto da segreto —
si dispone di un crescente potenziale nucleare,
però fuori controllo, perché inaccessibile
a qualsiasi ispezione?
Il silenzio di tutti su questo stato di cose,
a cui si è assoggettato il mio silenzio,
lo sento come opprimente menzogna
e inibizione che prospetta punizioni
appena non se ne tenga conto;
il verdetto «antisemitismo» è d’uso corrente.
Ora però, poiché dal mio paese,
di volta in volta toccato da crimini esclusivi
che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,
di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se
con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,
dovrebbe essere consegnato a Israele
un altro sommergibile, la cui specialità
consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove
l’esistenza di un’unica bomba atomica non è provata
ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,
dico quello che deve essere detto.
Perché ho taciuto finora?
Perché pensavo che la mia origine,
gravata da una macchia incancellabile,
impedisse di aspettarsi questo dato di fatto
come verità dichiarata dallo Stato d’Israele
al quale sono e voglio restare legato.
Perché dico solo adesso,
da vecchio e con l’ultimo inchiostro:
La potenza nucleare di Israele minaccia
la così fragile pace mondiale?
Perché deve essere detto
quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;
anche perché noi — come tedeschi con sufficienti
colpe a carico —
potremmo diventare fornitori di un crimine
prevedibile, e nessuna delle solite scuse
cancellerebbe la nostra complicità.
E lo ammetto: non taccio più
perché dell’ipocrisia dell’Occidente
ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile
che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,
esortino alla rinuncia il promotore
del pericolo riconoscibile e
altrettanto insistano perché
un controllo libero e permanente
del potenziale atomico israeliano
e delle installazioni nucleari iraniane
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
tramite un’istanza internazionale.
Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,
e più ancora, per tutti gli uomini che vivono
ostilmente fianco a fianco in quella
regione occupata dalla follia ci sarà una via d’uscita,
e in fin dei conti anche per noi.
Una poesia di Ndjock Ngana
poeta nato in Camerun nel 1952. Vive a Roma, dove lavora come operatore interculturale e dove è presidente dell’Associazione KEL’LAM Onlus. E' autore della raccolta di poesie Nhindo nero, Edizioni Anterem, 1994.
Il poeta ha detto che la parola "prigione" - mok in basaa - non esisteva in Camerun prima dell'arrivo degli occidentali. E' stata creata dalla radice oko, che significa "maledizione".
Vivere una sola vita
in una sola città
in un solo Paese
in un solo universo
vivere in un solo mondo
è prigione.
Amare un solo amico,
un solo padre,
una sola madre,
una sola famiglia
amare una sola persona
è prigione.
Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà
conoscere una sola logica
è prigione.
Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza
avere un solo essere
è prigione.