Marco Gambassi
Studio delle stelle: Astronomia e Astrologia
La fonte singhiozzava. Ivana fu accompagnata da Igor alla clinica segreta dove avrebbe dovuto abortire.
Riappropriarsi del suo corpo… Riscoprire il diritto a una maternità consapevole. Liberarsi, riaffermare che: “il corpo è mio e lo gestisco io.”
Igor la istruiva con i barbagli confusi di una dottrina appresa al tepore dei marciapiedi di pietra. I campi attorno laceravano il vento riunito alle corti di biada. Il silenziatore della notte aveva innalzato fantasmi verdi che alitavano dietro le sbarre di una ferrovia sonnacchiosa. Oltre, viaggiava gente sbiadita, camici multicolori.
“Il dominio capitalista, la veste maschilista attorniava il tuo corpo estremo. Lacerare gli artigli riposti nei viottoli afosi. Rinunciare. Spogliarsi di una carne estranea, di confusi artigli di dolcezza intrusa, di abusivo sentimento.”
Igor veleggiava sulle coste trasognate delle isole dell’ago e del carro. Le stanghe erano depositate su una terra guardinga. I cigli astrusi di fossili antichi traversavano le sabbie smunte del ricordo. Inutile parlare. Travestimenti alieni.
“Gli artigli su di me. Una carne violenta. Una carne non mia. Una macchia che lacera le mie vene…. Uscirne… Tornare pura, tra i viottoli stanchi di una penombra… Devo affermare la mia libertà.”
Ivana si appoggiò al muretto e si prese la testa tra le mani. Un soffio di vento la punse con un ago di pioggia, con un pizzico di salata dolcezza. Dov’era il suo uomo? La lotta animalista, anticapitalista e antimperialista, il negozio di ferramenta, la poesia.
Igor trasaliva. “Perché la poesia non ha mercato?”
Ivana sosteneva: “Nella poesia c’è la verità e la verità non può essere monetizzata.”
Igor, con la mano sul mento, profondamente riflessivo. “Ma allora, il mercato… non è la verità… Ahi che dubbi atroci mi prendono. Ma cosa credi? Io sono un uomo religioso. Tutte le mattine elevo il mio pensiero e innalzo le mie lodi al dio mercato.”
“Di destra o di sinistra?”
“Con possibili convergenze al centro…”
Le nubi della verità avanzavano senza peso, imprendibili.
Diventare leggera, senza peso, senza essere impacciata di sentimenti, di corpi estranei di bimbi invasori, pieni di pretese.
“Abbiamo il dovere storico di superare il dominio maschilcapitalista sul corpo femminile. Riaffermare la gestione imprenditoriale della base succinta….”
La clinica era chiusa.
Ferree imposte coprivano la spiaggia adiacente. Fulgori silenziosi, invenzioni…
Silenzi… Gloria celeste di astri scarmigliati, confusi. Pietrosi…
Non sapeva dove e quando andare…
Ivana guardava il mare accalorato, vedeva morbide lontananze fluttuare.
Mari di roccia scomparire.
Vulcani maestosi emergere. Era tutto così difficile.
Ivana ascoltò la morbida curva del ventre e ridusse soffice stoffa ai pallidi steccati della nebbia. Atrofizzati nel pulviscolo fantasticammo sugli albori di pietra ai passi stanchi.
Non c’era più nessuno sulle soglie.
Questo bastava.
Ivana percorse i sentieri, attraversò gradini di pietra e finì per incespicare laddove la pietra degradava. Qualcosa sussultò in lei, e un morbido lamento si diffuse…
Igor scomparve ma un giorno Ivana ebbe notizia di lui. Era in un paese lontano sulle rive di un mare dove Atlantide si era persa. La invitava ad un matrimonio del cielo, a far l’amore in un aeroplano. Si sarebbero incontrati nei corridoi di uno scalo misterioso.
Passarono giorni afosi e Ivana salì le scalette per l’imbarco. L’aereo s’impennò nel cielo.
Addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciute tra voi, e impresse nella sua mente; non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Lo so, questo è già stato scritto da Alessandro Manzoni nel suo romanzetto, ma come potevo io dirlo meglio?
Addio cieli aperti e chiusi, dove una vita si svolgeva inconsapevole, finché non giunse un’altra vita a risvegliarla. Finché il tremito di un corpo non parlò di un altro mondo, dentro di sé e infinito come il cosmo. Addio, arie deterse e affumicate, cieli logori nella dimenticanza….
E le contraddizioni in seno al popolo proletario smorivano nei colori tenui dell’alba, e l’internazionalismo ebbe il luccichìo della fiaba oltre gli orizzonti.
Così Ivana correva nel suo matrimonio del cielo, in compagnia di un bimbo da scoprire, tra gli addentellati e le pieghe delle ore e dei pasti fuggitivi dell’aeroplano.
Ernesto si guardò attorno per la via. Bagliori, antichi specchi si rifrangevano tra le bancarelle esauste. Un volto si dileguò tra la folla. Ernesto lo seguì. La folla defluiva nel mercato multicolore e vociante e come la folla i suoi pensieri vociavano, si urtavano, si confondevano.
Per una vita Ernesto aveva provato a mettere ordine nei suoi pensieri. Ma invano. Ne aveva poi dedotto che l’ordine della vita e della mente è lo stesso caos brulicante che ti scompiglia le carte, come l’onda appiattisce la sabbia sulla riva. Ernesto si fece largo tra la folla e lo vide di nuovo quel volto, passare davanti ai negozi affaccendati e poi svoltare verso la stazione dei treni. Allora si ricordò dei treni presi insieme a lei, e a quelli innumerevoli che non aveva preso.
Pensò ricordi impossibili, che non erano mai entrati nel campo visivo della memoria. Uno straniero lo urtò e l’eco di una fonte sgorgò. Camminò nel marciapiede fangoso rovistato dagli artigli del tempo inclemente di quei giorni d’inverno. Si riscosse nell’ampia piazza, dove la chiesa lanciava le sue guglie e le torri al cielo e raggiunse quel volto nella luce. Stavano ancora insieme davanti a un tavolino. Ernesto le prese una mano e la guardò “ti ricordi quella notte, che non finiva più, fu tutto così dolce.” “Sì è vero”, disse lei. Qualche rivolo bianco sorgeva tra il colore scuro dei suoi capelli. “E’ finito tutto troppo presto” aggiunse lui. Parlarono un po’ di se stessi, delle loro vite. “Ho sempre desiderato averti un’altra notte con me e fare con te all’amore, all’amore senza limiti”, aggiunse lui. La donna si alzò e defluì nel chiarore delle strade. Finirono a casa sua, era sola. Non avevano mai fatto l’amore così. Non l’aveva mai vista così. Prima era giovane e sofisticata, ora non più, almeno a giudicare dalla semplice casa. Prima metteva tra loro invisibili barriere, adesso non più, e lo aveva accolto con fraterna e complice semplicità. Prima usava le parole per dividere, distinguere, separare, lacerare. Ora usava i silenzi, gli sguardi muti per comprendere, per accettare. O forse era lui stesso a saper accettare tanto da vedere negli altri l’accoglienza e la complicità.
Ernesto si ricordò di essere sposato. Una moglie lo aspettava a pochi isolati di case. Un figlio era a scuola. Quando fu nella strada, Ernesto si disse di avere sciupato tutto. Forse aveva violentato un ricordo, il ricordo di un primo amore tenero e incontaminato. Il giorno dopo ritornò a quella casa e vide affiorare un sorriso e neri occhi guardarlo con la stessa aria interrogativa e accesa. Prese il volto di lei tra le mani e lo baciò. Dopo il bacio c’era nei loro occhi qualcosa di impaurito. La passione dilagò nel tempo. Ernesto non trovava pace che quando poteva essere con lei.
Scossi dal vento della passione, i lineamenti del paesaggio e dell’espressione del volto della moglie tramutarono. Per molto tempo Ernesto ricordò il desiderio struggente e sommesso della schiena di lei, quando la moglie se ne andò. Qualcosa nella sua carriera si inceppò e si trovò presto a prendere colpi, ad essere assediato da invisibili nemici. Un giorno, verso sera, uscì nella strada detersa, arrampicata nella limpida e gelida luce invernale. In un attimo il cielo scurì. Ogni strada lampeggiava dei fari veloci delle automobili. Un desiderio acuto e senza specchi stuzzicava le corde. Fragorosamente il cielo rombava. Quel desiderio lo spinse verso la nota casa, oltre la stazione dei treni che non aveva preso. Il fiotto del sangue rivide il suo volto, acceso dal desiderio. Le gambe scoperte e coperte dalle calze scure. Vicino a lei c’era un uomo. Quell’uomo entrò in casa. Ernesto fu morso nel cuore furibondo. La rabbia lo accecò. Suonò alla porta e nessuno rispose.
Molto tempo dopo Ernesto aveva l’arsura alla gola e la barba lunga che lo rendeva irriconoscibile. Tutto pareva andare storto. Aveva perduto anche il lavoro e non aveva quasi più notizie del proprio figlio. Ancora per lui il mercato accendeva le sue luci multicolori. Ancora per lui si faceva la sera, rifrangendo sui lineamenti l’ombra della notte del cielo. Un volto, ancora un volto era fuggito tra la folla, come uno spigolo di luce. Quel volto gli riparlava di un tradimento. “Non si può tradire altri che se stessi” pensò Ernesto e anni oscuri e soli bussarono alla porta del ricordo. Defluì nelle vie, ricercò quella schiena, così dura, così morbida che quel giorno lo aveva salutato con malinconica fierezza. Ernesto camminava dietro a lei con i passi fitti e l’ansia che mormorava come una sorgente nelle segrete vene. Ora vicino e ora lontano, inseguiva quella schiena e quel volto che il velo del tempo oscurava e ad un angolo lo vide, chiaro, pensoso e con un segreto sorriso, mentre svoltava per Via Nazionale. Cercò di decifrare il segreto che si dipanava con le ore e con la strada che si muoveva sotto ai suoi piedi.
E allora sognò.
La donna aveva abiti pieni di lusinghe e prendeva i treni ad orari sempre diversi ed erano treni sempre diversi. Le loro destinazioni erano varie e divergenti. I colori dei suoi vestiti erano sempre diversi. Un giorno il vestito che lei si era messo la rendeva simile in tutto alla donna dell’antico sogno. E allora l’avvicinò e le sorrise ma lei non lo riconobbe. Infine cos’era un sorriso, se le strade erano umide di pioggia e il cielo grigio? La pioggia frantumava spazio e pensieri… Le propose di prendere il treno insieme e la donna accennò una smorfia ironica e andarono e da allora presero sempre treni diversi a orari diversi e i loro vestiti avevano i colori dell’arcobaleno.
Che cosa dopo sia successo non lo so; cercai Ernesto invano nei ripostigli delle ore accecate dal vento, lo cercai nelle vene assetate, nella cenere sparsa dei camini naufragati, avevo gli abiti afflitti della memoria senza altri aggettivi, oscuri retaggi dell’ombra. Forse Ernesto abita ancora in qualche lacerto di strada, nei vicoli stretti e umidi e odoranti di urina, in qualche buio andito dalle scale malmesse, e attizza il legno del focolare, se qualcuno ancora lo attizza e non riceve il gas dalla Russia o da chissà dove, e non so più insomma dove sia finito Ernesto e non mi domandate più di lui. Ernesto naufragò come un pensiero senza sopracciglie aperte… e fu solo un esile pensiero… Lo rividi infine carezzare una donna dal volto esile e morbido e non so se fosse sua moglie, erano presso una rupe in una sera dilatata di nebbia torbida. Vidi i loro corpi cingersi in un abbraccio metafisico prima che il vento soffiasse e alzasse la polvere e la gonna di lei e gridasse parole convergenti verso un punto lontano.
Addio Ernesto, o comunque arrivederci in un luogo e in un tempo della galassia, dove altri soli illuminano ciò che qui resta oscuro e misterioso come un antico dolore…